“I Cercatori di funghi” di Piero Calamandrei

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Il fungo nasce saggio, portando rughe che sembrano frutto di un’esperienza pregressa, come se avesse già vissuto, in precedenza al suo fiorire, un’intera vita. Inoltre i funghi sono simbolo di resilienza e adattamento, nati da un terreno al quale sono legati per sempre e al quale, a modo loro, forniscono un loro contributo unico. Molti scrittori e poeti hanno tessuto le lodi di questi gioielli della terra, sia per il loro sapore inimitabile, sia per le caratteristiche che li rendono perle curiose, nascoste tra le radici degli alberi, in attesa di essere scovate.

 

Il fungo “letterario”

Alla lista degli amanti del fungo, che include autori come Montale, Calvino e tanti altri, appartiene senz’altro Piero Calamandrei (1889-1956), politico e accademico italiano, conosciuto soprattutto per la fondazione del Partito d’Azione nel 1942 e per la sua straordinaria epigrafe, polemicamente “dedicata” al comandante nazista Kesselring, l’aguzzino della strage di Marzabotto e delle Fosse Ardeatine.

Nel suo racconto “Cercatori di funghi” emerge però un lato di Calamandrei che non molti conoscono, ovvero il ritratto di un uomo semplice e pacato, legato alla terra (in particolare alla sua Toscana) e alla cultura popolare. Questo scritto è parte di un libro scritto dallo stesso Calamandrei nel 1941, dal titolo: “Inventario della casa di campagna”. In queste righe Calamandrei rievocò le atmosfere della sua giovinezza nella provincia senese, ricordando come l’arrivo dei funghi fosse un momento di festa per tutto il paese, a prescindere dall’estrazione sociale di appartenenza:

“È difficile figurarsi la rivoluzione che apporta in certi poveri paesi di campagna l’improvviso arrivo dei funghi: la notizia della loro apparizione corre di casolare in casolare, e attira al bosco non soltanto i dilettanti appassionati, quali eravamo noi, ma anche i mestieranti bisognosi, quelli per i quali la nascita dei funghi vuol dire la giornata assicurata. Tutti i pigionali senza lavoro, tutte le vecchine che in altre stagioni si vedono tornare la sera al paese, miseramente ripiegate sotto enormi fasci d’erba o di legna secche, tutti i raccattatori di concio e i poveri che vivono di elemosina, tutti corrono al bosco: e ritrovano in quei pochi giorni la gioia di esser vivi e di poter lavorare in libertà, a tu per tu col mondo, senza servire altri uomini. In verità per noi ragazzi di buona famiglia che avevamo a casa la tavola apparecchiata, era una bella sfacciataggine quella di andar nei boschi a portar via il tesoro dei poveri; ma la passione ci impediva di far siffatte considerazioni sociali: e anzi, a veder tutta quella gente che ci precedeva, ci pareva che gli intrusi fossero loro”.