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Citazioni letterarie sui funghi, da Apicio ai nostri giorni

II-XVII secolo

Facile regalare argenti e ori, una toga, un mantello:
regalare funghi, questo è difficile.

Marcus Valerius Martialis (40-104 d.C.) da: Epigrammi, XIII, 48.

XV. FUNGHI DI FARNIA O BOLETI
Funghi di farnia: lessali e ancor caldi seccali e mettili nella salsa acida di vino col pepe, quando avrai tritato il pepe con la salsa.
Ancora funghi di farnia: pepe, mosto, aceto e olio.
Ancora funghi di farnia: lessali col sale, con l’olio, col vino e col coriandolo battuto.
Funghi boleti: [cuocili] col mosto e con un fascio di coriandolo verde. Quando avranno bollito servi in tavola dopo aver tolto il mazzetto.
Altro modo per i boleti: porta in tavola i loro piccoli involucri pieni di salsa e cosparsi di sale.
Altro modo per i boleti: tagliuzza i gambi in una padella nuova: aggiungi pepe, ligustico, poco miele. Tempera con la salsa. Aggiungi poco olio.

Marcus Gavius Apicius (25 a.C-37 d.C.), da: De re coquinaria. Milano, Notari, 1930.

I buon parenti, dica chi dir vuole,
a chi ne può aver, sono i fiorini:
quei son fratei carnali e ver cugini,
e padre e madre, figliuoli e figliuole.
Quei son parenti, che nessun sen dole,
bei vestimenti, cavalli e ronzini:
per cui t’inchinan franceschi e latini,
baroni, cavalier, dottor di scuole.
Quei ti fanno star chiaro e pien d’ardire,
e venir fatti tutti i tuoi talenti,
che si pon far nel mondo né seguire.
Però non dica l’uomo: – I’ ho parenti –
ché s’e’ non ha denari, e’ può ben dire:
– Io nacqui come fungo a’ tuoni e venti!

Cecco Angiolieri (1260 ca.-1313), da: I buon parenti, in: Rime, XIII secolo – CXIV

Romperanno i silenzi assai men lunghi
cantando per le fronde allor gli uccelli.
Alcun al vecchio nido par ch’aggiunghi
certe festuche e piccoli fuscelli.
Campeggeran ne’ verdi prati i funghi:
liete donne corranno
or questi or quelli!
Lascerà il ghiro il sonno e’l loco ov’era
e l’assiuol si sentirà la sera.

Lorenzo de’ Medici (1449-1492), da: Canti carnascialeschi, 1490 ca.

PROSPERO:
Voi, de’ colli, de’ laghi e delle selve,
Silfidi abitatrici, e voi, voi pure
che vi godete d’inseguir sul lido,
col piè che nell’arena orma non lassa,
il fuggente Nettuno, e se ritorna
gli date, in corsa paurosa, il dorso,
e voi che descrivete a’ rai di luna,
spiritelli minuti, i cerchi amari
onde il prato s’imbeve, ed a quell’erba
né pecora, né zeba il dente accosta;
e voi che per trastullo uscir di notte
fate il fungo di terra, ed esultate
quando suona la squilla il coprifoco,
voi che fiacchi bensì, ma pur soccorso
bastevole mi foste; e per la vostra
poca virtù velai la faccia al sole
nel pien meriggio, scatenai la rabbia
de’ venti, e tra la verde onda del mare
e il glauco aere del ciel, della battaglia
l’ululo suscitai, le fiamme accesi
al terribile tuon che col potente
scoppio la quercia dell’Egioco atterra,
feci i monti tremar su’ lor profondi
fondamenti, l’abete, il faggio, il cedro
svelsi dalle radici; e fin le tombe
spalancai con un cenno, ed i dormenti,
svegli dall’arte mia, balzàr di novo
alla luce del dì; voi tutti udite!

William Shakespeare (1564-1616), da: La tempesta, 1611 – Atto quinto, scena prima

XIX secolo

WOYZECK (confidenziale): Signor dottore, ha mai visto niente della doppia natura? Il sole era a picco e pareva che il mondo prendesse fuoco quando una voce terribile mi ha parlato!
DOTTORE: Woyzeck, hai una aberratio.
WOYZECK (porta un dito alla punta del naso): I funghi, signor dottore. Là, è là che si nasconde. Ha mai visto le forme dei funghi quando spuntano dalla terra? Se uno sapesse decifrarle!
DOTTORE: Woyzeck hai una bella aberratio mentalis partialis della seconda species, molto pronunciata. Woyzeck, ti darò un aumento. Seconda species, idea fissa, in uno stato di sostanziale ragionevolezza; per il resto fai tutto come sempre, fai la barba al capitano?

Georg Buchner (1813-1837), da: Woyzeck, 1837 – Scena 11.

… L’altro
Non te ne caglia: agevolmente
Ne troverem più che non brami. Oh guata:
un fungo, e quivi un altro: oh quanti funghi
usciti son per tutto appena han vista
quella poca di piova. Orsù coglianne
che non ci fuggiran questi da gli occhi
Si come il grillo.
Il primo pastorello
Oh quanto è grosso e bianco
Questo ch’i’ ho colto.
L’altro
Io n’ho ben de’ più belli
Il primo pastorello
Dove son?
L’altro
Vedi questo
Il primo pastorello
Io troveronne
Un che sia meglio
La pastorella
Ecco io ne veggio, appresso
A quella pianta, un micolin più dietro
Il primo pastorello
Questa? È una foglia secca
L’altro
E tu che badi?
Che non vieni a cor funghi, e pieno è il prato
La pastorella
Lasciatemi filar, ch’io non ho voglia
Di gire al sol, però ch’annera il viso.
L’altro pastorello
Dilicata, ei non ha forza nessuna
Or ch’ei tramonta, e battemi negli occhi
Senza danno. E ben puoi tenerti a l’ombra
Or ch’è sì lunga.
Il primo pastorello
Io vo’ che tu riceva
Nel grembial questi funghi, ond’ho già pieno
Tutto il cappello, e non m’avanza loco.
La pastorella
Versagli pur.
L’altro pastorello
Lascia ch’io versi anch’io
Questi che ho colti.

Giacomo Leopardi (1798-1837), da: Canti, Argomenti e abbozzi di poesie: Telesilla, 1837.

[…] Ma nello stesso momento la mia attenzione fu attratta da uno spettacolo inatteso. A cinquecento passi, dietro a un alto promontorio, apparve ai nostri occhi una foresta fitta di alberi di media grandezza, a forma di ombrelli regolari, dai contorni netti e geometrici; sembrava che le correnti atmosferiche non avessero alcuna influenza sul loro fogliame, e in mezzo ai soffi essi rimanevano immobili e come pietrificati. Affrettai il passo. Io non sapevo dare un nome a quelle strane piante; facevano forse parte delle duecentomila specie vegetali conosciute fino allora, o era necessario classificarle a parte nella flora delle vegetazioni lacustri? No. Quando arrivammo sotto la loro ombra la mia meraviglia si mutò in ammirazione. Infatti avevo davanti agli occhi dei prodotti della Terra, di taglia gigantesca. Lo zio li chiamò immediatamente con il loro nome. – Non è che una foresta di funghi, – disse; e non s’ingannava. Si giudichi lo sviluppo acquistato da quei vegetali propri dei luoghi caldi e umidi. Sapevo che il Lycoperdon giganteum raggiunge, al dire di Buillard, da otto a nove piedi di circonferenza; ma qui si trattava di funghi prataioli alti da trenta a quaranta piedi, con una calotta di diametro uguale. Si contavano a migliaia. La luce non riusciva a vincere la loro fitta ombra, e un’oscurità completa regnava sotto quelle cupole sovrapposte come i tetti rotondi di una città africana. Tuttavia volli addentrarmi fra essi. Un freddo mortale scendeva dalle volte carnose. Errammo in quelle tenebre umide per una mezz’ora e fu con un vero senso di benessere che tornai alla spiaggia del mare. Ma la vegetazione della regione sotterranea non si arrestava a quella specie di funghi. Più lontano sorgeva un gran numero di altri alberi dalle foglie scolorite.

Jules Verne (1828-1905), da: Viaggio al centro della terra, 1864 – Capitolo XXX.

Poveretta me! Avevo dimenticato che avevo bisogno di crescere ancora! Vediamo, come debbo fare? Forse dovrei mangiare o bere qualche cosa; ma che cosa?

Il problema era questo: che cosa? Alice guardò intorno fra i fiori e i fili d’erba; ma non poté veder nulla che le sembrasse adatto a mangiare o a bere per l’occasione. C’era però un grosso fungo vicino a lei, pressappoco alto quanto lei; e dopo che l’ebbe esaminato di sotto, ai lati e di dietro, le parve cosa naturale di vedere che ci fosse di sopra.

Alzandosi in punta dei piedi, si affacciò all’orlo del fungo, e gli occhi suoi s’incontrarono con quelli d’un grosso Bruco turchino che se ne stava seduto nel centro con le braccia conserte, fumando tranquillamente una lunga pipa, e non facendo la minima attenzione né a lei, né ad altro.

[…]

Questa volta Alice aspettò pazientemente che egli ricominciasse a parlare. Dopo due o tre minuti, il Bruco si tolse la pipa di bocca, sbadigliò due o tre volte, e si scosse tutto. Poi discese dal fungo, e se ne andò strisciando nell’erba, dicendo soltanto queste parole: – Un lato ti farà diventare più alta e l’altro ti farà diventare più bassa.

«Un lato di che cosa? L’altro lato di che cosa?» pensò Alice fra sé.

– Del fungo, – disse il Bruco, come se Alice lo avesse interrogato ad alta voce; e subito scomparve. Alice rimase pensosa un minuto guardando il fungo, cercando di scoprirne i due lati, ma siccome era perfettamente rotondo, trovò la cosa difficile. A ogni modo allungò più che le fu possibile le braccia per circondare il fungo, e ne ruppe due pezzetti dell’orlo a destra e a sinistra. – Ed ora qual è un lato e qual è l’altro? – si domandò, e si mise ad addentare, per provarne l’effetto, il pezzettino che aveva a destra; l’istante dopo si sentì un colpo violento sotto il mento. Aveva battuto sul piede!

Quel mutamento subitaneo la spaventò molto; ma non c’era tempo da perdere, perché ella si contraeva rapidamente; così si mise subito ad addentare l’altro pezzo. Il suo mento era talmente aderente al piede che a mala pena trovò spazio per aprir la bocca; finalmente riuscì a inghiottire una briccica del pezzettino di sinistra.

Lewis Carrol (1832-1898), da: Alice nel paese delle meraviglie. London, Macmillan & Co., 1865.

O vecchio bosco pieno d’albatrelli,
che sai di funghi e spiri la malìa,
cui tutto io già scampanellare udia
di cicale invisibili e d’uccelli:
in te vivono i fauni ridarelli
ch’hanno le sussurranti aure in balìa;
vive la ninfa, e i passi lenti spia,
bionda tra le interrotte ombre i capelli.
Di ninfe albeggia in mezzo la ramaglia
or si or no, che se il sedìo le vinca,
l’occhio alcuna ne attinge, e il sol le bacia.
Dileguano; e pur viva è la boscaglia,
viva sempre nel fior della pervinca
e nelle grandi ciocche dell’acacia

Giovanni Pascoli (1855-1912), da: Myricae. Livorno, Giusti, 1891.

XX secolo

Nel tempo stesso, mi sembrò che un vapore vischioso mi bagnasse la fronte, e che un odore speciale di funghi vecchi venisse a ferirmi le narici. Allungai il braccio e fremetti nello scoprire ch’ero caduto sull’orlo di un pozzo circolare, del quale, pel momento, non avevo alcun mezzo per calcolare la vastità.

Edgard Allan Poe (1809-1849), da: Il pozzo e il pendolo in: Racconti curiosi e grotteschi. Roma, Società Editrice Nazionale, 1901.

M’attira il tuo sorriso come
Potrebbe attirarmi un fiore
Fotografia tu sei il fungo bruno
Della foresta
La sua bellezza
I bianchi sono
Un chiaro di luna
In un pacifico giardino
Pieno d’acque vive e d’indiavolati giardinieri
Fotografia sei il profumo dell’ardore
La sua bellezza
E ci sono in te
Fotografia
I toni illanguiditi
Vi si sente
Una melopea
Fotografia tu sei l’ombra
Del sole
Tutta la sua bellezza.

Guillaume Apollinaire (1880-1918), da: Calligrammes, 1918 – in Poesie di Guillaume Apollinaire. Parma, Guanda, 1960.

Poiché le prime piogge autunnali hanno ammorbidito l’essiccata crosta terrestre, è naturale sfunghino molti funghi. Queste prime dolci acque hanno avuto conseguenze oneste e liete anche in alcuni crani, non ancora sfracellati da nessuna volante testuggine, perché, avendo la civiltà, sotto specie di fungo da cinciniere, sgombrato il cielo dai rapaci, nessuna aquila può essere tratta dal sicuro istinto a confonderli con le rocce. […]

Prime piogge autunnali: i primi funghi sono i funghi porcini…

Antonio Gramsci (1891-1937), da: Sotto la Mole, 1916-1920. Torino, Einaudi, 1960 – 3 ottobre 1919.

Le langhe selvose si vestivano del fasto autunnale. Si striavano, si chiazzavano di verde cupo e di giallo fulvo, di grigio cinereo e di rosso sanguigno e il sole già pallido ne verniciava le tinte con la sua lucentezza appena dorata. Sul diradare lento dei colli, i boschi di pini e di castagneti si dividevano quasi a zone regolari e sul giallore vario ed espanso dei castagneti, si staccavano netti i coni appuntiti della pineta di un intensissimo verde a riflessi azzurri. Alla loro ombra rabbrividivano nel vento leggero le pannocchiette roseo-violaceo delle eriche e frusciavano le larghe felci dal frastaglio elegantissimo, che parevano fuse in un lucido bronzo chiaro. I ginepri esalavano al sole il loro profumo selvaggiamente aromatico e i piccoli funghi gineprini gialli viscidi lucenti, si accoccolavano a gruppi sotto i cespugli spinosi, come famigliole di nani che aspettassero per nutrirsi la caduta delle nere bacche azzurrognole, dal sapore acre e dolciastro.

Amalia Guglielminetti (1881-1941), da: Gli occhi cerchiati d’azzurro. Milano, Mondadori, 1920.

Oh, come sono lunghi
i giorni senza te!
Mi par che dentro a me
nascano i funghi!
I funghi, come quando
piove, d’autunno e si
muore dovunque di
noia, e noiando.
E non ci son che ombrelli
su e giù per la città.
Sembrano, in verità,
funghi, anche quelli…
Funghi, cocciuta muffa
viva, che vien da sé…
Vedi, ove senza te
l’uggia mi tuffa!

Ernesto Ragazzoni (1870-1920), da: Poesie. Torino, Chiantore, 1927.

Se quest’acqua si prolunghi
qualche poco ancora, credo
che domani mi ti vedo
tutto il bosco pien di funghi.
La stagione è appunto quella
che convïene al boleto
e al propizio castagneto.
Uscirò colla cestella.
Quell’andare cauto e lento
a frugar tra muschi, al fresco,
se mai trovo, pel mio desco,
il buon cibo succulento;
quel rimuovere le foglie
dietro al filo d’un profumo,
a scoprir questa, nell’umo,
selvaggina che si coglie,
m’è grandissimo diletto
assai più che s’io m’adoperi
sui giornali, a legger scioperi
o l’eterna «Caporetto».
Fungo mio, m’han detto, fungo,
che tu germini per spore,
ma in che modo, Iddio Signore,
a comprenderlo non giungo.
Come avvenga propriamente
non lo so, ma piove, ed ecco
diventato umido il secco;
vien su il fungo, e par dal niente.
E ne sprizzan forme e torme
lungo il pian, per le pendici
tra le felci e le radici
sotto l’erbe, in mille forme.
Oh, carini! Certi, han l’aria
d’ova, d’alghe, di testuggini;
certi, al suolo paion ruggini
certi sono… Oh, specie varia,
Son minuscole pagode,
cappellucci, orci, tentacoli,
certi rustici abitacoli
dove un silfo se la gode.
Certi, tavoli uso nani;
certi, incudini per gnomi;
certi, ombrelli; certi, dômi,
dômi assai lillipuziani.
E v’han funghi barbassori
funghi, agli altri, donni e domini
funghi, molto superuomini…
Ma non passan tra i migliori.
Ci hanno indosso e gemme e porpora
son chi son, ma se li squarci
questi, ahimè, li trovi marci
e un veleno in lor s’incorpora.
Ed è, stolido, un merlotto,
chi ci crede: ci si perde!
Sono i funghi in grigio verde
quelli prodi, in camiciotto,
quei color delle cortecce,
color terra, umili eroi.
Tutto è infin, come da noi
tra le genti fungherecce.
E con unica bilancia
funghi ed uomini io tratto,
e so dirvi in modo esatto
quale o no dà il mal di pancia.
Così, amico, oppure amica
che ti leggi questi versi,
tieni a mente che i perversi
(funghi, è inutile ch’io dica)
son gli sciocchi, i farisei
quei che più danno nell’occhio…
che fan l’augure, il santocchio
(funghi, intendo, amici miei).
Vero è pur che il meno scaltro
con un nulla li dirocca,
e son tosto, a chi li tocca,
quel che son, muffa e nient’altro.
Però qui mi par s’allunghi
troppo, e troppo sia morale,
questa storia… Molto male.
Via le ciance!… — Andiam per funghi.

Ernesto Ragazzoni (1870-1920), da: Poesie. Torino, Chiantore, 1927.

Poi veniva la stagione che in mezzo alle albere di Belbo e sui pianori dei bricchi rintronavano fucilate già di buon’ora e Cirino cominciava a dire che aveva visto la lepre scappare in un solco. Sono i giorni più belli dell’anno. Vendemmiare, sfogliare, torchiare non sono neanche lavori; caldo non fa più, freddo non ancora, c’è qualche nuvola chiara, si mangia il coniglio con la polenta e si va per funghi.

Cesare Pavese (1908-1950), da: La luna e i falò. Torino, Einaudi. 1950.

Come se avessero atteso il segnale di entrare in scena, ecco spuntare da
ogni parte i meravigliosi funghi; ecco il popolo misterioso, magnifico dei
funghi, rosa, rossi, azzurri, viola-malva, verdi, gialli, violetti, grigio-scuro.
grigio-chiaro, bianco- puro, bianco-crema. I funghi splendidi e attraenti.
preziosi come calici, mortiferi come coppe avvelenate: il porcino dal cappello
color tonaca di cappuccino e dal grosso piede d’avorio; il gallinaccio dal
collaretto arancione; increspato: l’ovolaccio col suo ombrello da fiera,
vermiglio con lagrime bianche: il prataiolo maggiore col suo parasole chiaro
da vecchia marchesa; funghi. che, da una specie all’altra, attraverso morbide
sfumature e una infinita gradazione di tinte, spiegano tutta la gamma del
prisma. E, con questa profusione di colori, una profusione. di forme strane;
atteggiamenti contorti, odori soavi e ripugnanti.
Spariti i funghi, la festa del colore è finita.
L’autunno non è più che un malinconico spargitore di cenere.

Marcel Roland (1879-1955), da: Canti d’uccelli e musiche d’insetti. Milano, Rizzoli, 1951.

Il vento, venendo in città da lontano, le porta doni inconsueti, di cui
s’accorgono solo poche anime sensibili, come i raffreddati del fieno, che
starnutano per pollini di fiori d’altre terre.
Un giorno, sulla striscia d’aiola d’un corso cittadino, capitò chissà donde
una ventata di spore e ci germinarono dei funghi. Nessuno se ne accorse
tranne il manovale Marcovaldo che proprio lì prendeva ogni mattina il tram.
Aveva questo Marcovaldo un occhio poco adatto alla vita di città: cartelli,
semafori, vetrine, insegne luminose, manifesti, per studiati che fossero a
colpire l’attenzione, mai fermavano il suo sguardo che pareva scorrere sulle
sabbie del deserto. Invece, una foglia che ingiallisse su un ramo, una piuma
che si impigliasse ad una tegola, non gli sfuggivano mai: non c’era tafano sul
dorso d’un cavallo, pertugio di tarlo in una tavola, buccia di fico spiaccicata
sul marciapiede che Marcovaldo non notasse, e non facesse oggetto di
ragionamento, scoprendo i mutamenti della stagione, i desideri del suo
animo, e le miserie della sua esistenza.
Così un mattino, aspettando il tram che lo portava alla ditta Sbav dov’era
uomo di fatica, notò qualcosa d’insolito presso la fermata, nella striscia di
terra sterile e incrostata che segue l’alberatura del viale: in certi punti, al
ceppo degli alberi, sembrava si gonfiassero bernoccoli che qua e là
s’aprivano e lasciavano affiorare tondeggianti corpi sotterranei.
Si chinò a legarsi le scarpe e guardò meglio: erano funghi, veri funghi, che
stavano spuntando proprio nel cuore della città! A Marcovaldo parve che il
mondo grigio e misero che lo circondava diventasse tutt’a un tratto generoso
di ricchezze nascoste, e che dalla vita ci si potesse ancora aspettare
qualcosa, oltre la paga oraria del salario contrattuale, la contingenza, gli
assegni familiari e il caropane.
Al lavoro fu distratto più del solito; pensava che mentre lui era lì a scaricare
pacchi e casse, nel buio della terra i funghi silenziosi, lenti, conosciuti solo da
lui, maturavano la polpa porosa, assimilavano succhi sotterranei, rompevano
la crosta delle zolle. «Basterebbe una notte di pioggia, – si disse, – e già
sarebbero da cogliere». E non vedeva l’ora di mettere a parte della scoperta
sua moglie e i sei figlioli.
– Ecco quel che vi dico! – annunciò durante il magro desinare. – Entro la
settimana mangeremo funghi! Una bella frittura! V’assicuro!
E ai bambini più piccoli, che non sapevano cosa i funghi fossero, spiegò con
trasporto la bellezza delle loro molte specie, la delicatezza del loro sapore, e
come si doveva cucinarli; e trascinò così nella discussione anche sua moglie
Domitilla, che s’era mostrata fino a quel momento piuttosto incredula e
distratta.
– E dove sono questi funghi? – domandarono i bambini. – Dicci dove
crescono!
A quella domanda l’entusiasmo di Marcovaldo fu frenato da un
ragionamento sospettoso: «Ecco che io gli spiego il posto, loro vanno a
cercarli con una delle solite bande di monelli, si sparge la voce nel quartiere,
e i funghi finiscono nelle casseruole altrui!» Così, quella scoperta che subito
gli aveva riempito il cuore d’amore universale, ora gli metteva la smania del
possesso, lo circondava di timore geloso e diffidente.
– Il posto dei funghi lo so io e io solo, – disse ai figli, – e guai a voi se vi
lasciate sfuggire una parola.
Il mattino dopo, Marcovaldo, avvicinandosi alla fermata del tram, era pieno
d’apprensione. Si chinò sull’aiola e con sollievo vide i funghi un po’ cresciuti
ma non molto, ancora nascosti quasi del tutto dalla terra.
Era così chinato, quando s’accorse d’aver qualcuno alle spalle. S’alza di
scatto e cerca di darsi un’aria indifferente. C’era uno spazzino che lo stava
guardando, appoggiato alla sua scopa.
Questo spazzino, nella cui giurisdizione si trovavano i funghi, era un giovane
occhialuto e spilungone. Si chiamava Amadigi, e a Marcovaldo era
antipatico da tempo, forse per via di quegli occhiali che scrutavano l’asfalto
delle strade in cerca di ogni traccia naturale da cancellare a colpi di scopa.
Era sabato; e Marcovaldo passò la mezza giornata libera girando con aria
distratta nei pressi dell’aiola, tenendo d’occhio di lontano lo spazzino e i
funghi, e facendo il conto di quanto tempo ci voleva a farli crescere.
La notte piovve: come i contadini dopo mesi di siccità si svegliano e balzano
di gioia al rumore delle prime gocce, così Marcovaldo, unico in tutta la città,
si levò a sedere nel letto, chiamò i familiari. «È la pioggia, è la pioggia», e
respirò l’odore di polvere bagnata e muffa fresca che veniva di fuori.
All’alba – era domenica –, coi bambini, con un cesto preso in prestito, corse
subito all’aiola. I funghi c’erano, ritti sui loro gambi, coi cappucci alti sulla
terra ancora zuppa d’acqua. – Evviva! – e si buttarono a raccoglierli.
– Babbo! guarda quel signore lì quanti ne ha presi! – disse Michelino, e il
padre alzando il capo vide in piedi accanto a loro, Amadigi anche lui con un
cesto pieno di funghi sotto il braccio
– Ah, li raccogliete anche voi ? – fece lo spazzino. – Allora sono buoni da
mangiare? Io ne ho presi un po’ ma non sapevo se fidarmi… Più in lì nel corso
ce n’è nati di più grossi ancora… Bene, adesso che lo so, avverto i miei
parenti che sono là a discutere se conviene raccoglierli o lasciarli… – e
s’allontanò di gran passo.
Marcovaldo restò senza parola: funghi ancora più grossi, di cui lui non s’era
accorto, un raccolto mai sperato, che gli veniva portato via così, di sotto il
naso. Restò un momento quasi impietrito dall’ira, dalla rabbia, poi – come
talora avviene – il tracollo di quelle passioni individuali si trasforma in uno
slancio generoso. A quell’ora, molta gente stava aspettando il tram, con
l’ombrello appeso al braccio, perché il tempo restava umido e incerto. – Ehi,
voialtri! Volete farvi un fritto di funghi questa sera? – grida Marcovaldo alla
gente assiepata alla fermata. – Sono cresciuti i funghi qui nel corso! Venite
con me! Ce n’è per tutti! – e si mise alle calcagna di Amadigi, seguito da un
codazzo di persone.
Trovarono ancora funghi per tutti e, in mancanza di cesti, li misero negli
ombrelli aperti. Qualcuno disse: – Sarebbe bello fare un pranzo tutti
insieme! – Invece ognuno prese i suoi funghi e andò a casa propria.
Ma si rividero presto, anzi la stessa sera, nella medesima corsia
dell’ospedale, dopo la lavatura gastrica che li aveva tutti salvati
dall’avvelenamento: non grave, perché la quantità di funghi mangiati da
ciascuno era assai poca.
Marcovaldo e Amadigi avevano i letti vicini e si guardavano in cagnesco.

Italo Calvino (1923-1985), da: Marcovaldo. Torino, Einaudi, 1963.

La casa di via Pastrengo era molto grande. C’erano dieci o dodici stanze, un cortile, un giardino e una veranda a vetri, che guardava sul giardino; era però molto buia, e certo umida, perché un inverno, nel cesso, crebbero due o tre funghi. Di quei funghi si fece, in famiglia, un gran parlare: e i miei fratelli dissero alla mia nonna paterna, nostra ospite in quel periodo, che li avrebbero cucinati e mangiati; e mia nonna, sebbene incredula, era tuttavia spaventata e schifata, e diceva: – in questa casa si fa bordello di tutto.

Natalia Ginzburg (1916-1991), da: Lessico famigliare. Torino, Einaudi, 1963.

“Che cos’ha il vecchio Maggot che non va?”, chiese Pipino “È un buon amico di tutti i Brandibuck. Siamo d’accordo, è il terrore di tutti coloro che oltrepassano i limiti della sua proprietà, e i suoi cani sono spaventosi e feroci, ma dopo tutto la gente di qui, essendo vicina alle frontiere, deve stare molto in guardia e all’erta”. “Lo so”, disse Frodo, “ma ciò non impedisce”, aggiunse timido e mortificato, “che lui e i suoi cani mi terrorizzino. Ho evitato la sua fattoria per anni ed anni. Mi sorprese parecchie volte, quando ero ragazzo e vivevo a villa Brandy, a cercare funghi nella sua proprietà. L’ultima volta mi diede un sacco di scapaccioni e poi mi mostrò ai suoi cani. “Guardate bene, ragazzi”, disse loro; “la prossima volta che questo giovane mascalzone mette piede nelle mie terre, potete divorarlo. Adesso cacciatelo via!”. Mi rincorsero fino al Traghetto, e non dimenticherò mai la paura che ebbi, pur convinto che quelle brave bestie conoscevano il loro mestiere e non mi avrebbero nemmeno sfiorato”.
Pipino rise. “Be’, è ora che facciate la pace, specialmente se hai intenzione di tornare a vivere nella Terra di Buck. Il vecchio Maggot è una gran brava persona… se lasci stare i suoi funghi

John Ronald Reuel Tolkien (1892-1973), da: Il signore degli anelli. Roma, Astrolabio, 1967.

Il fiorellino: “Che bella cosa esser nato vicino a te.
Così tu mi ripari dalla pioggia.
Ma dimmi: sei un vero ombrello o fungi da ombrello?”
Il fungo: “Fungo”.

Achille Campanile (1899-1977), da: Tragedie in due battute. Milano, Rizzoli, 1978.

[…] Tante favole raccontava
Storie matte a scarampazzo
Faceva tutto un gran papocchio
Streghe a cavallo di un ranocchio
Diavoli nani in fondo al mare.
Mangiava solo funghi matti
Con la capocchia avvelenata
Se li mangiava in insalata
E non le veniva da vomitar.
Che nonna pazza!
Che nonna pazza![…]

Dario Fo (1926-2016) – Franca Rame (1929-2013), da: Io c’avevo una nonna pazza, sigla d’apertura della trasmissione di RAI 2 Buonasera con Franca Rame in onda dal 7 gennaio al 1º febbraio 1980.

XXI secolo

Sono passati due anni nell’orologio e due canzoni di grillo nell’orobilogio. Scarpagno giù dal bosco dove una volta c’era la mia casa. Ho sottobraccio un cesto pieno di funghi.

Porcino grasso fratino, protettore dei risotti. Boledro aranciato, ovetto con l’ombrello. Cappelline che vivete in branchi e chiacchierate all’ombra dei fili d’erba. Candido prataiolo dalla sottoveste di seta viola. Mazza di tamburo, cazzaccio tutto bugni. Chiodini piantati a uno a uno dal martello degli gnomi. Galletto stortignacolo e delizioso, vescia scoreggiona, fungacci sguinci attaccati agli alberi come malattie, e magari siete anche buoni. Amanita bella e traditrice come una vampira. Satanasso verdastro e bavoso, che annodi gli intestini e fai sudare bile.

Scarpagno col cestino pieno di funghi buoni, anche se li farò controllare, perché, come diceva mio nonno, basta un bastardo nel cesto per rovinar tutto, proprio come tra gli uomini.

Stefano Benni (1947-), da: Saltatempo. Milano, Feltrinelli, 2001 – Capitolo V.

L’ELOGIO DEL FUNGO

Una volta sono andata nel bosco, come faccio ogni giorno quando mi trovo lassù in montagna. Grande silenzio. Anche i miei passi diventano leggerissimi, per non turbare nulla, per non impedire all’uccello di posarsi su un ramo sopra la mia testa se ne ha voglia, per non scacciare quello che è sull’albero al quale mi sto avvicinando. D’un tratto un lieve raspare tra le foglie morte. Guardo ai miei piedi: a un metro da me, dall’altra parte di un faggio sradicato e caduto a terra, un graziosissimo topo campagnolo è intento alle sue piccole occupazioni. Mi fermo a guardarlo, estasiata; anche lui si ferma e mi guarda. Gli dico qualche parola, sottovoce; lui si dirige tranquillo verso il tronco coricato, ci si ferma sotto. Mi chino a guardare: il mio piccolo amico è immobile davanti a un enorme porcino, come a indicarmelo. Poi sparisce. Lì per lì, ho davvero creduto che volesse farmi un regalo. Dunque ho tirato fuori dalla tasca il mio coltello a serramanico e ho raccolto qual fungo magnifico. Un grosso porcino color camoscio e bianco, perfettamente sodo e per nulla bacato, anche se mordicchiato e intaccato da dentini sulla parte superiore della cappella. Di sicuro dal mio bel campagnolo in persona. Non gli avevo rubato il suo banchetto, in effetti? È la domanda che mi sono posta una volta rientrata a casa, ma era troppo tardi, non gliel’avrei comunque riportato. Ho pensato che c’era più di un’affinità tra quel topo campagnolo e quel fungo. Per cominciare, i loro nomi, in francese, almeno: campagnol (il topino) e champignon (il fungo). E poi il colore. Le forme morbide e paffute. Il loro profumo di sottobosco. La loro connivenza: io mi nascondo, tu mi trovi; io sono buono, tu mi mangi. E forse anche: io sono bello e buono, fa’ di me un dono per un’altra creatura vivente che ti ha trovato bello e ti ha parlato.

Alina Reyes (1956-), da: Elogio del fungo. Parma, Guanda, 2012.

Quel giorno sono rimasta a lungo nel bosco e ho raccolto molti altri porcini. L’indomani a mezzogiorno venivano degli amici a pranzo da noi, così li ho cucinati tutti, compreso quello del topino. A tavola, fuori, Marie ha raccontato che suo padre diceva sempre “Porcino visto dall’uomo non cresce più”. Lui l’aveva sperimentato più volte, con spirito scientifico. Se trovava un porcino giovane, gli metteva accanto un segnale, poi tornava per più giorni di seguito a osservarlo. Immancabilmente, constatava che quel porcino non cresceva. Ah, ecco! Avevo avuto la stessa impressione anch’io. Conosco il territorio come le mie tasche, attorno al fienile. Ogni volta che trovavo un piccolo porcino, mi astenevo dal raccoglierlo. Tornavo l’indomani, due giorni dopo, anche tre o quattro Se nessuno l’aveva raccolto nel frattempo, il porcino era sempre esattamente lo stesso, sempre piccino uguale, salvo che cominciava a essere mangiato dai vermi o dalle lumache. Dopo circa una trentina di volte ho finito per decidermi a prenderli com’erano, piccoli ma freschissimi. Perché loro volevano così: essere raccolti come mi erano apparsi, e non come forse avrei voluto che fossero.

Alina Reyes (1956-), da: Elogio del fungo. Parma, Guanda, 2012.

Quando crescono i porcini? A che velocità?
Spesso basta una giornata di caldo dopo una notte di pioggia per trovarli al mattino, spuntati
dal suolo come per miracolo, nuovi di zecca e a volte già grossi e perfettamente formati. Parrebbe
dunque che siano in grado di crescere a tutta velocità, in poche ore soltanto. Ma il padre di Marie
aveva ragione, basta trovarli ancora piccini perché non crescano più.
È molto strano, ma tutto lo è nella raccolta dei porcini. Dopo le primissime esperienze, si entra
facilmente in empatia con loro. Si cammina nel bosco come fossimo loro, se così posso dire.
Lo so, i porcini hanno un piede soltanto e nessuno li ha mai visti camminare, ma intendo dire
che ci sentiamo un po’ come se fossimo un porcino anche noi, un grosso porcino ambulante se
volete; comunque, a naso, troviamo subito i punti dove staremmo bene, al loro posto.
Dunque, basta andare là a vedere e controllare: spesso sono davvero dove sentivamo che ci
sarebbe piaciuto trovarci, se fossimo stati un porcino. E non è semplice come si potrebbe pensare,
ad esempio: nascono di preferenza ai piedi di questo o quel tipo di albero. È un buon indizio ma
non basta, altrimenti sarebbe facilissimo coltivare i porcini. Soprattutto nei boschi dove non
abbondano, bisogna avere il feeling per trovarne.
Ma non è questo l’aspetto sorprendente; a sorprendere di più, a mio parere, è proprio la
meraviglia, per non dire lo shock, che si prova davanti a ogni porcino trovato.
È come se fosse spuntato dalla terra soltanto in quel momento. Dico dalla terra, ma dovrei dire
dal nulla.
Il porcino è una visione.
Nel momento in cui lo scorgete, lui ha appena attraversato l’invisibile, la frontiera dell’invisibile,
per manifestarsi ai vostri occhi, offrirsi a voi. Ecco perché, forse, è “visto e preso”. Che voi lo
cogliate o no. Ecco, è venuto da voi, la sua missione è compiuta, non crescerà più. Raggiungendo
voi ha raggiunto il suo scopo.
Penso che sia così anche per noi. Veniamo al mondo per essere visti, da Qualcuno che
ignoriamo. Quando sentiamo di esserci rivelati, se siamo sicuri di noi, smettiamo di avanzare nel
tempo, in un modo o nell’altro. Rimanendo dunque nella freschezza di una pura e perpetua
visione.
Ogni volta che trovo un porcino, il mio cuore ha un sussulto. Gli sorrido, gli parlo. Lo colgo con
amore, me lo porto al naso, che non è piccolo, per sentirne il profumo squisito e intenso, me lo
porto alle labbra per posargliele sulla cappella soda, tenera e dolce, gli do un bacio, lo guardo, gli
dico che è bello.

Alina Reyes (1956-), da: Elogio del fungo. Parma, Guanda, 2012.

Rincasando, preparo i funghi più piccoli, quelli a “turacciolo”, per gustarli crudi. Li pulisco
delicatamente con un pezzo di stoffa o di carta umida, li divido a metà. Se la loro polpa è intatta,
bianca, priva di parassiti di sorta, la taglio a fettine, la bagno col succo di limone e l’olio d’oliva,
aggiungo un po’ di sale, eventualmente pepe, erba cipollina – ma in minima quantità – per far sì che
sprigionino il sapore e il profumo selvatico del fungo.
Ritrovarsi in bocca le sue caratteristiche vigorose, unitamente alla struttura fine, leggera, aerea
delle fettine, è come mangiare bosco e cielo insieme, celebrare le nozze della terra e dell’aria.

Alina Reyes (1956-), da: Elogio del fungo. Parma, Guanda, 2012.

I porcini più grossi vengono puliti e affettati allo steso modo.
Se la raccolta è abbondante, ne metto una parte a seccare. Faccio a modo mio: stendo dei fogli
di carta sul fondo di una o due cassettine di legno e ci allineo sopra i funghi a fettine. Li lascio
seccare al sole per più giorni di seguito.
Se si mette a piovere, porto le cassette al coperto nel fienile. Di lì a poco si sprigiona un odore
così intenso che si ha l’impressione di vivere direttamente nel sottobosco, fra i tronchi e le foglie
morte. Non appena ritorna il sole, rimetto fuori le cassette.
Fin dalle prime ore si vedono i vermi, sconsolati, uscire dal loro buco e andarsene dimenandosi,
bianchissimi sulla carta bianca. Alcuni escono dalla cassettina e finiscono non so dove né come,
altri seccano insieme al fungo che è loro dimora e nutrimento.
Una volta che tutto ha preso la consistenza della carta, posso sistemare i funghi affettati in una
scatola di latta; quanto ai vermicelli, avranno per sepoltura le pagine che appallottolo attorno alle
loro minuscole spoglie, prima di servirmene per accendere il fuoco nel camino.
I porcini troppo bacati, li ributto nel bosco … riposino in pace! Quelli che lo sono soltanto un po’
e che voglio cuocere subito, cerco prima di tutto di liberarli dei loro inquilini.
Ne resta sempre qualcuno, tanto peggio: contribuirà al piatto con le sue proteine … Li
faccio saltare in padella, non troppo a lungo e senza troppi condimenti.
Non scendendo spesso in paese, nei giorni in cui in frigo ho soltanto delle uova, salgo un
momento nel bosco, giusto per trovare di che guarnire una frittata.
Se arrivano degli amici all’improvviso, siccome sono sempre contenta di vederli e di invitarli alla
mia tavola e siccome, d’altro canto, sono anche selvatica come un porcino o una fragola di bosco,
concilio i piaceri della solitudine e quelli dell’ospitalità andando subito in giro per i boschi a
cogliere in loro onore bacche, funghi ed erbe, mentre loro bevono un bicchiere a casa.
I porcini, come si sa, accompagnano meravigliosamente la carne ed entrano in ogni sorta di
preparazione.

Alina Reyes (1956-), da: Elogio del fungo. Parma, Guanda, 2012.

Il mio amico Antoine mi ha dato la sua ricetta per il risotto: una parte dei porcini viene ridotta
lentamente in pappa con un po’ di brodo; un’altra parte, di preferenza i gambi, viene cotta con il
riso seguendo il delicato metodo tradizionale; la terza parte, in padella. Si serve il risotto nel piatto
sormontato dalla pappa e dai porcini fritti: una meraviglia!
Quando a casa abbiamo ospiti, per un pranzo in fretta e furia faccio delle quiche o delle torte
con i porcini cucinati in padella, una prelibatezza molto semplice che si mangia con le dita.
Se durante l’estate ne raccolgo molti, per conservarli fino a Natale preparo anche qualche vaso
di porcini sott’olio. Riempio i vasi fino all’orlo di funghi (scelgo i più sodi e sani) e di olio d’oliva,
metto il tappo quando sono ancora molto caldi, poi li ripongo semplicemente al fresco. Quando si
apre il vaso, si ha l’impressione che siano stati appena colti e cucinati. Una riserva di gioia estiva
per le giornate grigie di novembre e dicembre.
I porcini secchi sono perfetti per fare i sughi, li trovo molto più profumati di quelli conservati in
acqua. Li si può usare anche per le vellutate, con un pizzico di curry, una carota e un po’ di cipolla:
titillano le papille!

Alina Reyes (1956-), da: Elogio del fungo. Parma, Guanda, 2012.